Il Giovedì Santo è uno dei momenti più solenni dell’anno liturgico cristiano. In questa giornata, la Chiesa fa memoria dell’Ultima Cena di Gesù, non solo come evento spirituale, ma anche come fatto storico e fondamento sacramentale. La Cena consumata da Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della Passione è stata al centro di studi storici, esegetici e teologici, che nel tempo hanno arricchito la comprensione di quel momento cruciale.
Una Pasqua ebraica fuori dal tempo?
I Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) presentano l’Ultima Cena come un seder pasquale, cioè una cena rituale celebrata durante la Pasqua ebraica, in cui si ricordava la liberazione dall’Egitto. Tuttavia, il Vangelo di Giovanni offre una versione differente: secondo la sua narrazione, Gesù muore sulla croce proprio mentre al tempio vengono sacrificati gli agnelli pasquali, il giorno prima della Pasqua.
Questa apparente discrepanza ha spinto studiosi e biblisti a interrogarsi: l’Ultima Cena fu realmente una cena pasquale? Alcuni, come il biblista francese Jean Carmignac, hanno ipotizzato che Gesù seguisse un calendario liturgico diverso da quello ufficiale, forse quello degli Esseni, celebrando la Pasqua in anticipo. Altri, come Joachim Jeremias, hanno sostenuto che si trattasse comunque di un pasto pasquale, ma con tratti profondamente innovativi e orientati al compimento escatologico.
Il gesto che fonda l’Eucaristia
Al centro dell’Ultima Cena troviamo i gesti del pane e del vino. Gesù prende il pane, lo spezza e lo dona, dicendo: «Questo è il mio corpo». Fa lo stesso con il calice: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti».
Queste parole, trasmesse dalle prime comunità cristiane e riportate da San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 11,23-26), costituiscono il testo eucaristico più antico del Nuovo Testamento, redatto appena vent’anni dopo la morte di Gesù. Mostrano come l’Ultima Cena fosse già vissuta come una realtà viva e operante, non un semplice ricordo, ma una presenza reale, rinnovata in ogni celebrazione eucaristica.
Il servizio che rovescia le logiche del potere
Solo il Vangelo di Giovanni racconta il gesto della lavanda dei piedi. Gesù, il Maestro e il Signore, si china e lava i piedi ai discepoli: un’azione riservata ai servi, che sconvolge le consuete dinamiche di autorità. Con questo gesto, Gesù offre un esempio concreto e radicale: l’amore autentico si manifesta nel servizio, nell’abbassamento, nell’umiltà.
Nel contesto giudaico del I secolo, si trattava di un atto profondamente controcorrente, che spezzava ogni schema sociale. L’autorità cristiana, da quel momento, non si fonderà mai sul potere, ma sulla capacità di servire.
Il luogo dell’Ultima Cena: tra tradizione e ricerca archeologica
La tradizione colloca l’Ultima Cena nel Cenacolo, una stanza al piano superiore di una casa di Gerusalemme, oggi indicata nel monastero sul Monte Sion. Tuttavia, il luogo esatto è oggetto di dibattito.
Alcuni studiosi, basandosi su dati archeologici, ipotizzano che la Cena possa essersi svolta in una dimora privata appartenente a simpatizzanti o discepoli, forse in un quartiere abitato da giudei ellenizzati. Le indagini archeologiche condotte sul Monte Sion e in altre aree della Gerusalemme del I secolo hanno cercato di ricostruire l’ambiente in cui un gruppo come quello di Gesù avrebbe potuto riunirsi per un pasto rituale.
Un’eredità che attraversa i secoli
Il Giovedì Santo, con la celebrazione della Messa in Coena Domini, la lavanda dei piedi e la reposizione dell’Eucaristia, non è semplice rievocazione simbolica. È la riattualizzazione del dono totale di Cristo, che si spezza nel pane e si versa nel vino. È memoria viva di un amore che salva e che invita ogni credente a vivere secondo la logica del dono.
L’Ultima Cena non è un semplice episodio del passato. È l’origine di una nuova alleanza, il cuore dell’identità cristiana, la mensa attorno alla quale la Chiesa si riconosce da duemila anni. È lì che si rivela, con intensità assoluta, il volto di un Dio che ama fino alla fine.