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La Divina Commedia IN-VITA: Ulisse, consigliere fraudolento

a cura di Avv. Antonello Iasevoli

Cari Amici, continuiamo il viaggio negli Inferi, attraversando, sempre, insieme a Dante e a Virgilio, l’VIII Bolgia, all’interno dell’VIII Cerchio, ove sono puniti i consiglieri fraudolenti, tra i quali scorgeremo il re di Itaca, Ulisse.

Essi sono condottieri e politici, che non agirono con le armi e con il coraggio personale, al servizio del bene e della virtù cristiana, ma servendosi, al contrario, della spregiudicata e fraudolenta acutezza del proprio ingegno, al fine, unico, di ingannare il prossimo. Il consiglio fraudolento è un peccato dettato dall’abuso dell’intelligenza umana, frutto di un’ingegnosa attività persuasiva e di una eloquente facondia, sotteso, però, ad architettare e promuovere inganni; ergo, Dante, paradossalmente, mostra, per  tali anime, una sorta di rispetto e di riverenza, in quanto l’azione peccaminosa, posta in essere in vita, non depaupera l’essere umano delle proprie determinazioni intellettive e volitive e, per sì fatto motivo, non induce l’uomo ad assumere comportamenti dal carattere bestiale.

Per tale ragione, nell’VIII Bolgia regna una certa compostezza e serenità scenica; mancano del tutto il disprezzo per le anime, la sofferenza, le strazianti urla di dolore, le atrocità delle pene, che, invece,  caratterizzano, in maniera plateale, tutte le altre zone infernali. La pena cui sono sottoposti i consiglieri fraudolenti è rappresentata da tantissime fiammelle, che volteggiano in aria, all’interno delle quali sono rinchiuse le anime dei dannati; in virtù della legge del contrappasso, come esse in vita, a mezzo della lingua, cioè della favella, manifestarono i loro consigli fraudolenti, sputandoli come fuoco, così, ora, sono avvolti in lunghe lingue di fuoco.

Tra le tantissime fiammelle, Dante nota una fiamma con due punte, una delle quali è più grossa e più alta dell’altra; chiede a Virgilio chi peccatore vi fosse all’interno, paragonando detta fiamma a quella con due lingue di fuoco, che sorgeva dalla pira funebre ove vennero bruciati i cadaveri dei due fratelli Etéocle e Polinìce, figli di Edipo, re di Tebe, e di Giocasta, morti mentre, accecati da un odio, l’uno per l’altro, derivato da questioni di successione al trono, si sfidarono in battaglia; il loro reciproco rancore fu talmente forte che, anche dopo la morte, le due anime rimasero separate. L’immagine  allude alla doppiezza e fa pensare, anche, alla lingua biforcuta del serpente, l’animale che, nella mitologia e nella tradizione cristiana, indica l’astuzia maligna. Ancora, chi inganna il prossimo si rende portavoce di Satana, “lingua di fuoco”, antitesi e parodia delle “lingue di fuoco” dello Spirito Santo, che discesero sugli Apostoli il giorno di Pentecoste. Virgilio rivela che la fiamma a due punte imprigiona le anime di Ulisse e di Diomede, inseparabili amici e compagni di viaggio. Dante, dunque, mostra subito un acuto ed ammirevole interesse per Ulisse, il quale, presa la parola, inizia a raccontare la sua disavventura: il monologo si articola sulla tematica della conoscenza; sulla necessità ontologica di viaggiare, scoprire nuove terre, capire e comprendere l’animo umano. L’eroe greco, difatti, asserisce che né l’affetto per il giovane figlio Telemaco (che lascerà alle cure del maestro Mentore), né il rispetto per l’anziano padre Laerte, né l’amore dovuto alla amata sposa Penelope poterono dissuaderlo dalla irrefrenabile necessità e dall’incontenibile ardore di viaggiare e di conoscere il mondo e terre lontane.  Alla fine del monologo, ha luogo la perorazione di Ulisse, affinché i suoi compagni si lascino persuadere ad oltrepassare le Colonne d’Ercole, abbracciando l’esperienza di esplorare e conoscere il mondo sanza gente, cioè, l’emisfero sud della Terra che, secondo la cosmologia dantesca, era interamente ricoperto dalle acque. Egli, così, esclama: ”…Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.

Persuasi i compagni, la navigazione prosegue; riprendono il folle volo, oltrepassano le Colonne d’Ercole, fino a quando, trascorsi cinque mesi, avvistano la montagna del Purgatorio, “bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avea alcuna”.

Dalla montagna nasce un turbine, che colpisce la prua della nave; la fa girare su se stessa per tre volte; alla quarta la poppa si alza, la prua si inabissa, finché il mare, inghiottita la nave ed il suo equipaggio, si richiude sopra di essi. 

Il viaggio di Ulisse termina qui!

Ma noi continueremo ad occuparci di lui, con qualche spunto riflessivo… alla settimana prossima.

 

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